Il drago alla prova del fuoco americano

L’amministrazione Trump vuole attuare politiche protezioniste ma sottovaluta il forte legame di codipendenza tra le due più potenti economie del mondo.

Una trama comune lega l’andamento dell’economia mondiale: da oltre quarant’anni le banche e la finanza determinano l’economia americana; la salute economica americana è invece strettamente vincolata a quella cinese, l’andamento di qursto rapporto determina la salute dell’Unione Europea: come è possibile?
Occorre tornare indietro nel tempo, all’inizio degli anni 70 per ricordare l’inizio del riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti nell’incontro tra Mao e Nixon. I l riavvicinamento si fondava su due grandi temi: le prospettive commerciali e la necessità di contrastare l’egemonia dell’ex Unione Sovietica. Questi fondamentali sarebbero stati il fondamento di quello che a livello mondiale, sarebbe dovuto essere il più importante rapporto economico del ventunesimo Secolo, se non fosse che la traiettoria di questo percorso anziché procedere in linea retta ha compiuto numerose deviazioni fino ad oggi dove il suo futuro è molto incerto. La retorica utilizzata da Donald Trump durante la campagna elettorale, non si è mitigata una volta eletto, oggi le azioni intraprese fanno pensare che effettivamente le accuse di perdita di posti di lavoro, concorrenza sleale, dumping industriale e una vasta gamma di altre questioni come il controllo delle acque su cui la Cina ha costruito isole artificiali, saranno seguite da provvedimenti lesivi per le relazioni tra i due paesi. Provvedimenti che si possono elencare in pesanti sanzioni, contrasto alle rivendicazioni territoriali cinesi, confronto militare, abbracciando Taiwan e interferendo nella quarantennale politica di una Cina Unica salvo poi fare un rapido dietrofront, ma che comunque ha stabilizzato non poco gli ambienti diplomatici. Questo approccio si fonda su un atteggiamento muscolare da parte degli Stati Uniti, convinti che da questo approccio si otterrà la leva per portare a nuove trattative il Governo cinese. Una lettura strategica che soffre di un difetto fondamentale sia perché la Cina non assisterà silenziosa, difatti il budget militare è in costante forte incremento, sia perché le considerazioni di carattere economico-finanziario rivelano scenari in cui le economie americane e cinesi sono fortemente dipendenti l’una dall’altra poiché gli esperimenti in misura monetaria e industriale hanno plasmato la crescita dei due paesi negli ultimi decenni. Questa interdipendenza potrebbe avere delle serie implicazioni per ciò che si prospetta sotto il profilo strategico. È vero gli USA sono stati a lungo uno dei maggiori e redditizi mercati di esportazione della Cina, pilastro il suo sviluppo trentennale, in cui il volume delle esportazioni è mutato dal 5%del PIL nel 1979 al 36% nel 2007 precedentemente alla grande crisi finanziaria. Risulta dunque pleonastico affermare che l’interruzione dei rapporti commerciali non provochi seri danni con chi rappresenta dal 2000 ad oggi una quota di oltre il 19% del PIL in export: sarebbe un duro colpo per l’economia cinese quindi le minacce di Trump non verrebbero considerate con leggerezza. Tuttavia anche per gli Stati Uniti la Cina rappresenta il terzo mercato per volume di esportazione di beni, dietro Canada e Messico, ma con un trend maggiore rispetto a questi, inoltre la Cina risulta uno dei più grandi detentori stranieri del Titoli di Stato USA, in sostanza ne controllano il debito per un valore di quasi 1,3 trilioni di Dollari. In altre parole, la Cina non solo fornisce ai consumatori americani prodotti a basso costo e sempre di più alta qualità e al contempo risulta essere di primo livello delle esportazioni dei prodotti degli Stati Uniti con un trend sempre più importante, ma è attraverso il suo sistema di risparmio, anche il più grande creditore in possesso dei una larga fetta del debito pubblico americano, necessario per sostenere l’economia. Infatti in un contesto in cui i tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve sono pari a zero, questi prestiti sono stati guidati meno da considerazioni di velocità di ritorno e più per la tattica della Cina di gestione valutaria volti a mantenere il Renminbi (o Yuan) con un allineamento relativamente stretto con il Dollaro. In questo senso, una interruzione di afflusso di capitali cinesi o una perturbazione degli scambi bilaterali tra le due nazioni sarebbero difficilmente da considerare irrilevanti per gli Stati Uniti.

Alle radici di questo doppio senso di dipendenza – l’equivalente economico di quello che gli psicologi chiamano codependency, in italiano codipendenza – una analisi può essere fatta partendo dal coinvolgimento iniziale di Nixon e Mao. Ma ci sono poi voluti sviluppi economici impegnativi in entrambe le nazioni per creare un senso di necessità che in ultima analisi ha cementato questo rapporto. Necessità che è una parte importante della storia recente di entrambe le nazioni. Tornando ai primi anni ’80, sulla scia della rivoluzione culturale, che ha lasciato la sua economia nel caos, la Cina era alla disperata ricerca di una nuova fonte di crescita economica. Uscendo da un attacco distruttivo di “stagflazione” (conseguirsi vorticoso di inflazione e stagnazione) della fine del 1970 e all’inizio del 1980, gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di una nuova ricetta economica. Il consumatore americano in difficoltà ha risolto entrambi i problemi, diventando una potente fonte di sostegno esterno per la crescita cinese, beneficiando di prezzi più bassi per i prodotti realizzati in Cina. I due paesi sono così entrati in un matrimonio di convenienza imbarazzante che serviva i bisogni reciproci, in cui Cina ha costruito una sempre più potente economia trainata dalle esportazioni come produttore finale mentre gli Stati Uniti hanno abbracciato la filosofia del consumatore finale quasi fossero immagini speculari l’uno dell’altro. Gli Stati Uniti hanno aperto la porta all’adesione della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) alla fine del 2001 segnando una pietra miliare nella ascesa della Cina come produttore finale. E l’appetito vorace della Cina per i Titoli del Ministero del Tesoro nei primi anni del 2000 ha contribuito a mantenere i tassi di interesse negli Stati Uniti bassi, sostenendo i mercati nelle attività che hanno permesso al consumatore finale a vivere ben oltre i suoi mezzi. Fissandosi sulla produzione, la quota di consumo privato dell’economia cinese ha iniziato a sprofondare, scendendo al 35% del suo PIL nel 2010, attestandosi a circa la metà di quella degli Stati Uniti. Nel frattempo, fissata sul consumo, la creazione di posti di lavoro nel settore manifatturiero statunitense ha continuato la sua lunga discesa – che cade da un picco del 32% dell’occupazione non agricola totale nel 1952 ad appena l’8,5% alla fine del 2016. Inutile dire che quest’ultima tendenza – imputabile in gran parte al cambiamento tecnologico, alla specializzazione internazionale e alla globalizzazione – precede di gran lunga l’ascesa della Cina moderna; infatti, oltre l’80% del declino della quota di produzione di occupazione degli Stati Uniti è avvenuta prima adesione della Cina al WTO. Questo importante dato sembra ignorato dall’amministrazione Trump che invece vuole attribuire la colpa declino secolare in termini di posti di lavoro e di produzione dell’America alla crescita più recente della Cina.

Abbiamo evidenziato come il commercio tra USA e Cina sia accresciuto negli ultimi decenni passando in termini di export come quota della produzione mondiale dal 17% del PIL mondiale nel 1986 a un record dei 31,5% nel 2008; il commercio transfrontaliero di beni e servizi è dunque anche legato a importanti strategie di difesa e di sicurezza dei collegamenti aeronavali in tutto il mondo. Anche in questo caso contano le relazioni che gli Stati Uniti hanno stabilito con i principali alleati nella regione Asia-Pacifico, in particolare il Giappone, la Corea del Sud e Australia. In ciascuno di questi casi, l’atto di bilanciamento tra commercio e sicurezza geostrategica – in particolare, l’hosting di basi militari degli Stati Uniti – è un aspetto importante del collante che lega insieme queste nazioni. Inutile dire che, eventuali crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale non possono che complicare questo delicato equilibrio.

Mentre finora Stati Uniti e la Cina sono stati in gran parte in grado di mantenere la stabilità nel loro rapporto codipendente, non ci sono garanzie che questo continuerà in futuro. Infatti, la codipendenza economica ha il potenziale di trasformarsi in un rapporto molto distruttivo. Accecati dalla fase di gratificazione della loro codipendenza, i partner possono alla fine smarrirsi perché ciascuno è talmente concentrato nel ruolo di servire l’altro, al punto di finire nel perdere di vista il senso economico di se stesso, generando reazioni tese a recuperare quel pezzo mancante della propria identità.

Identificando la Cina come il cattivo che presumibilmente impedisce all’America di essere grande, la recente escalation con la prospettiva di tensioni nei rapporti sino-americani è preoccupante, per non dire altro. Trump ha riunito un team di consulenti commerciali di alto livello al fine di pianificare l’attacco. Da Peter Navarro come direttore del Consiglio del commercio nazionale e autore di testi altamente polemici sulla Cina, a Wilbur Ross come segretario al Commercio, Robert Lighthizer come membro della confcommercio americana (USTR), e Rex Tillerson come Segretario di Stato, le credenziali del fronte anti cinese della nuova amministrazione sono senza precedenti. La codipendenza è un rapporto altamente reattivo: quando un partner cambia i termini di impegno, l’altro sentendosi disprezzato, di solito risponde violentemente. Di fatto, è esattamente ciò che si sta verificando, come i primi sforzi dell’Amministrazione Trump di destabilizzare le relazioni diplomatiche conseguentemente ad una telefonata altamente provocatoria avvenuta lo scorso 2 Dicembre tra Donald Trump e Tsai Ing-wen il presidente di Taiwan in cui apparentemente Trump ha elevato lo status di Taiwan da “provincia ribelle” a nazione sovrana, lasciando storditi funzionari cinesi che hanno commentato poco in un primo momento, salvo dire alla luce della strategia di cristallizzazione dei rapporti e riguardo alle interferenze sulla politica della Cina unica, che sarebbero stati utilizzati in difesa “grandi bastoni”, se necessario. Una successiva telefonata avvenuta il 9 Febbraio tra i presidenti Xi e Trump sembra aver disinnescato la questione, per il momento, con il presidente degli Stati Uniti che ritira le bellicose minacce espresse in precedenza per quanto riguarda Taiwan e i’assetto della Cina unica. Ma a quanto pare di comprendere su diversi argomenti la volatilità è la norma per la nuova Amministrazione e non si comprende se e quando ci sarà un altro avvitamento su questo tema fondamentale. Come minimo, il presidente Trump ha messo Pechino sull’avviso che nulla è fuori dal tavolo quando si tratta di trattare con la Cina, mentre il suo gruppo di consiglieri si è rapidamente mosso per destabilizzare gli altri aspetti del rapporto. Nel suo intervento al Senato, il Segretario di Stato Rex Tillerson ha alzato la posta sulla possibilità di un’azione militare degli Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale. Inoltre, il nuovo presidente ha minacciato di abrogare impegni di riduzione della CO2 in America, un passo che minerebbe i negoziati sul clima e gli impegni comuni in tema di cambiamenti climatici minacciando per riflesso, gli accordi globali di Parigi. Inoltre le considerazioni di Trump rigardo la necessità di difesa nucleare indipendente che Giappone e Corea del Sud e lo stesso Taiwan dovrebbro raggiungere, potrebbero avere implicazioni di vasta portata per la posizione della Cina in materia di sicurezza pan-asiatica foriera di problemi ad ampio spettro. L’America potrebbe sentire rapidamente la piena ira di cinese con una ritorsione economica e finanziaria, i grandi bastoni, nelle parole dei media oltre a sanzioni contro le aziende statunitensi operanti, e in ultima analisi, con tariffe sulle importazioni statunitensi. Inoltre la Cina potrebbe desistere dall’acquistare ulteriore quota di debito dal Tesoro USA un problema potenzialmente grave, dato l’alto deficit di bilancio federale che probabilmente sotto Trump alla luce dell’impegno della nuova amministrazione su grandi tagli fiscali per privati e aziende, unito ai massicci sforzi per la ricostruzione della rete infrastrutturale poiché senza domanda cinese di Titoli di Stato, gli Stati Uniti rischiano di dover fare nuovr e più forti concessioni sui termini adottati in grado di attrarre capitali stranieri, producendo una pressione al rialzo sui tassi di interesse e/o pressione al ribasso sul valore del dollaro USA, invertendo recente rafforzamento del biglietto verde. E, naturalmente, in caso di un ulteriore aggravamento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, la Cina potrebbe incrementare ancora di più le vendite a titolo definitivo dal suo enorme portafoglio di asset valutati in Dollari.

Ma la più grande tragedia per gli Stati Uniti potrebbe essere il prezzo che tutto questo assume per il consumatore americano. Il motto “America first” – sia che andasse a discapito della Cina o tramite la cosiddetta perequazione fiscale alla frontiera (in pratica tassando le importazioni ma non le esportazioni), che sembra essere una caratteristica centrale del progetto di riforma dell’imposta sulle società di capitali – si applicherà a molte delle efficienze industriali delle piattaforme logistiche di approvvigionamento globali della gdo che contengono i prezzi di una vasta gamma di beni di consumo nel US. In assenza di tali piattaforme globali di produzione a basso costo, o di fronte alla diluizione in materia fiscale del loro impatto, il cosiddetto “approccio Wal Mart” sarà posto in seria discussione, in un contesto sociale che ormai, vede i consumatori americani abituati alle importazioni a basso prezzo specie in un epoca di salari bassi e pochi investimenti dello Stato. Se la politica di Trump in materia di Cina porterà ad un rialzo dei prezzi, i lavoratori della classe media, nucleo elettorale di Trump, saranno quelli che pagheranno le conseguenze più alte.

Per queste ragioni, le insidie generate dalla codipendenza con la Cina sollevano profonde domande sulla tenuta del patto sociale in America e il ruolo che la globalizzazione e il commercio hanno avuto nel sostenerlo. La capacità di generazione di reddito dell’economia degli Stati Uniti è, infatti, stata sotto pressione straordinaria dal 1970 epoca in cui si è sviluppato il sistema dell’industria finanziaria. Ma questo non ha fermato il disegno per l’establishment americano di stimolare il consumo nazionale ben oltre i suoi mezzi e parallelamente ridurre il risparmio interno stimolando il ricorso al debito privato, al fine di far quadrare i conti correndo un grande rischio nel farlo, prelevando in prestito pesanti cifre dai risparmiatori che dall’estero investivano in Titoli di Stato, con lo scopo sotteso di condonare dai conti corrente cronici deficit commerciali multilaterali, quale prezzo per sostenere la crescita economica USA: debito per creare consumo e generare ancora più debito. Ed è questo il momento, naturalmente, in cui la Cina si inserisce nella storia americana, con la sua offerta fuori misura di merci a basso costo e il surplus monetario depositato dai risparmi. La Cina, con il proprio insieme di potenti ambizioni, è stata più che disposta a giocare in quel ruolo. In altre parole, la codipendenza USA-Cina è una conseguenza della strategia Americana volta a trarre profitto a breve termine rispetto ad un moello più aeguato che altrimenti avrebbe potuto garantire una prosperità più tenue. Se l’Amministrazione Trump vorrà ridurre il ruolo della Cina per l’attuazione della strategia elettorale, poi gli Stati Uniti dovranno trovare un altro o più partner per riempire il vuoto creatosi e così facendo dovranno probabilmente pagare un prezzo più elevato in termini di tassi di interesse e/o quotazione del Dollaro, al fine di attrarre surplus di risparmio. Voluto o no, quanto progettato dall’ultraliberismo progressita e quanto derivato dalla codipenednza cisese, ha lasciato l’economia degli Stati Uniti in uno stato precario, vulnerabile alle spinte ribassiste nei mercati finanziari, o esposti al ritiro ei risparmi provenienti dall’estero. E questo non può che intensificare il dibattito sulla politica economica della prosperità. Per i critici progressisti risulta impossibile garantire il patto sociale del sogno americano – di una crescente prosperità in cui ogni generazione è cresciuta in termini di benessere rispetto ai genitori -, Washington ha bisogno di istituti di credito stranieri come la Cina, al fine di colmare il disavanzo economico. Che non solo ha investito in prestito i risparmi in eccesso, ma così facendo, ha contribuito a mantenere bassi i tassi di interesse bassi. Per ciò, fare pressione sulla Cina potrebbe costringere gli Stati Uniti ad affrontare una delle sue sfide più difficili: infatti nella misura in cui la Cina ha permesso tramite la codipendenza agli Stati Uniti di evitare crisi economiche e finanziarie altrimenti difficili, rompendo le regole di ingaggio tra le due nazioni potrebbe rompersi l’equilibrio tenue di questo rapporto. Alla fine, tutto si riduce alla economia politica della prosperità, mettendo a fuoco i compromessi geopolitici che entrambe le nazioni sono disposte a fare per sostenerla. L’analisi economica che impone la ricerca di nuove fonti di finanziamento potrebbe rivelarsi particolarmente scoraggiante per l’Amministrazione Trump che peraltro sta mutando in modo severo i rapporti con Germania e Giappone, rispettivamente la seconda e la terza più grande sacca di risparmio in eccedenza nel mondo. Senza una nuova fonte di capitale esterno (a meno che non crolli il sistema monetario europeo con l’Euro), gli Stati Uniti non avranno quindi altra scelta che far fronte alla necessità di aumentare il risparmio interno tagliando il deficit di bilancio federale. Non riuscendo a farlo, gli investimenti degli Stati Uniti, semi della futura crescita e prosperità, potrebbero essere messi a rischio. Infine, la codipendenza sino-americana, non solo rappresenta una sfida difficilissima per la strategia di Trump nel colpire la Cina ma solleva questioni ancora più profonde circa ciò che deve veramente essere fatto per il “Make America Great Again”. Nel suo discorso inaugurale, Donald Trump ha insistito che, “il protezionismo porterà a grande prosperità e forza” ma se le azioni contro la Cina risulteranno essere il mezzo verso questo fine, le insidie di codipendenza mettono a fuoco la prospettiva inquietante di una rottura nella relazione economica più importante del mondo, con ricadute potenzialmente devastanti sul resto del mondo. Quelle stesse insidie che evidenziano il ruolo della Cina nell’equazione di crescita degli Stati Uniti e pongono la relativa difficile domanda di come questa equazione verrà risolta senza di essa.

 

La Redazione